Descrizione del quadro "Giuditta e Oloferne" del Caravaggio
“Emozioni tattili: Giuditta e Oloferne del Caravaggio, i polpastrelli raccontano" progetto sostenuto con i fondi di Fondazione Roma e con il contributo finanziario dell’Associazione di Volontariato Museum – ODV.
Michelangelo Merisi detto Caravaggio (Milano, 1571-Porto Ercole, 1610)
Giuditta e Oloferne – 1598-1600 circa o 1602
Olio su tela, altezza 145 × 195 cm
Descrizione del quadro
Per salvare la città di Betulia e l’intero popolo d’Israele, Giuditta sta per uccidere Oloferne. Iniziamo la lettura del quadro partendo dalla destra della composizione. Incontriamo subito in primo piano il volto decrepito di profilo e gli occhi spiritati della sua serva, che accentuano la drammaticità dell’evento; è vestita di umili panni color ocra, con una cuffia sulla testa, e pronta ad accogliere la testa mozzata nella bisaccia. La fanciulla, divinamente ispirata, si erge subito dietro l’anziana serva e appare quasi impassibile di fronte all’atrocità del gesto che sta compiendo. Solo la fronte aggrottata e il suo seno palpitante tradiscono qualche turbamento, ma non la fatica. Ha i capelli raccolti sulla nuca, una blusa bianca aderente al seno. La spada, perno compositivo e drammatico, viene impugnata con fermezza dalla mano destra di Giuditta, mentre la sinistra trattiene vigorosamente i capelli dell’uomo. Le braccia sono scoperte e la blusa ha le maniche arrotolate sui gomiti. Una luce, che cade dalla parte alta a sinistra, le irradia la ramata capigliatura raccolta, fino a valorizzarne il prezioso abito dorato damascato. Nel momento culminante dell’azione, il generale assiro, è sospeso tra la vita e la morte. E’ sdraiato sul letto sfatto. Di lui vediamo solo la testa, le braccia e il busto: con il braccio destro cerca di sollevarsi mentre il sinistro ha la mano chiusa in un pugno che accentua la drammaticità della scena. Il volto è rivolto verso di noi in primo piano, quasi a voler uscire dal quadro. La testa è girata verso l’alto, gli occhi spalancati e la bocca aperta come a cercare di far uscire un urlo che ormai non può più essere emesso. Dalla testa, ormai quasi mozzata, escono dei fiotti di sangue in contrasto con le bianche lenzuola, che sembrano schizzare fuori dalla tela, verso di noi. Nella notte risuona il suo singulto disperato mentre il suo corpo nudo, nella parte sinistra del quadro, si contorce violentemente nell’inutile tentativo di sollevarsi dal letto. Lui non è più vivo, come indicano i suoi occhi rovesciati all’indietro, e non è ancora morto. L’intera scena assume poi una potente carica teatrale, grazie al suntuoso panneggio rosso rubino, alle spalle dei tre personaggi, ricco di falcature e profonde pieghe, che si confonde nel nero del buio della scena.
Associazione di Volontariato Museum – ODV
Genesi dell'opera
Il Caravaggio celebrò il macabro episodio biblico attraverso un’immagine paradigmatica e di forte impatto emotivo, dando avvio a un tipo di raffigurazione dello spasimo della morte che riscuoterà una vasta eco in tutto il Seicento, soprattutto nell’ambito dei suoi primi seguaci (da Giovanni Baglione a Bartolomeo Manfredi, da Artemisia Gentileschi a Louis Finson, fino a Jusepe de Ribera e oltre). Lo straordinario dipinto, scoperto quasi casualmente nel 1951 e acquisito dallo Stato italiano nel 1971, fu commissionato dal genovese Ottavio Costa (1554-1639), che nel 1579 aveva fondato a Roma un importante banco assieme allo spagnolo Juan Enríquez de Herrera. Oltre ad essere un raffinato collezionista, Costa era uno dei più facoltosi uomini d’affari della capitale papale, avendo in carico l’amministrazione di ingenti depositi e di redditizi uffici curiali.
Ricordata nei due testamenti di Costa (1632 e 1639) e nelle Vite di Baglione (1642), la Giuditta doveva essere l’opera più importante della quadreria del banchiere, che la teneva gelosamente nascosta – per stupire i suoi ospiti e per preservarla – dietro una tenda di taffettà analoga a quella raffigurata dal Caravaggio nella zona superiore del dipinto (nello stesso modo era anticamente esposto l’Amore vincitore oggi a Berlino, realizzato dal pittore nel 1602 per il marchese Vincenzo Giustiniani). Diversi studiosi datano il quadro al biennio 1598-1600, quattro o cinque anni dopo l’arrivo dell’artista a Roma, mentre altri propendono per una datazione al 1602, dopo che Gianni Papi, nel 2016, ha collegato l’esecuzione della tela a un importante documento pubblicato nel 2007 da Maria Cristina Terzaghi: una minuta autografa in cui il Caravaggio dichiarava di aver ricevuto venti scudi da Ottavio Costa il 21 maggio 1602, «a bon conto d’un quadro ch’io gli dipingo». Questa generica menzione, infatti, era stata più volte riferita a un altro capolavoro dell’artista posseduto dal banchiere: il San Giovanni Battista oggi a Kansas City.
Yuri Primarosa
Lettura di Valerio Terribili